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Giuseppe Munforte

Per la consueta rubrica “Cinque domande, uno stile” oggi ospitiamo Giuseppe Munforte. Milanese, esordisce nel 1998 con il romanzo “Meridiano” (Castelvecchi) cui seguono, tra gli altri, “La prima regola di Clay” (2008, Mondadori), “Nella casa di vetro” (2014, Gaffi, presentato al premio Strega dello stesso anno)  e “Il fruscio dell’erba selvaggia”  (2018, Neri Pozza).

 

 

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Una sensazione di irrequietezza, una bella sensazione, come di un mondo che sta per aprirsi e che devo lasciar “crescere”, senza aver fretta, senza forzature. Il modo migliore per scrivere, per quanto mi riguarda, è che sia quel mondo, e dunque la scrittura, a prendere il comando.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

La parola conclusiva di una narrazione ha sempre una sua necessità, una necessità che è “interna” alla narrazione stessa. Si presenta da sé come conclusiva. Bisogna però dire che ogni parola, anche l’ultima, è sempre anche un’apertura, indica una direzione, sia all’indietro, verso quello che l’ha generata, sia in avanti, verso il possibile che non è stato compreso nella narrazione e che aleggia intorno a essa.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

No. Posso dire che c’è stato un periodo, intorno ai diciotto, diciannove anni, in cui ho iniziato a sentire la scrittura come qualcosa di inscindibile dalla mia vita.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Lo stile non è mai stato per me un vincolo, un fattore esterno cui forzarmi. Tutt’altro. Lo stile è la condizione stessa della scrittura, in quanto rappresenta la voce, il punto di visione di uno scrittore.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Non ho mai pensato a niente del genere, scrivendo. Nei miei romanzi non ci sono intenzioni politiche o sociali. Però le conseguenze di ogni libro sono anche necessariamente politiche e sociali. La letteratura offre un’interpretazione dell’umano e quindi attiva una particolare sensibilità verso il mondo. Leggere le dà forza, la alimenta.

 

 

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