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La lettera e il comò


C’erano giornate di vento. E lo sentivi, entrava senza chiedere permesso. Bussava forte, e i fragili vetri delle finestre di nonna non riuscivano a lasciarlo per la strada. Entrava e spalancava ogni cosa. Cuori e aperture. Scostava i panni, li rigirava alla rinfusa per la casa mentre nonna, con fare furioso, si piegava a raccogliere col nome di dio stretto tra le labbra. Io ero lì, a tendere le mani piccole e paffute, a far confusione, a mischiarmi col vento.
Certe volte entrava a folate violente, scostava i quadri dei santi appesi alle pareti, e picchiava, picchiava. Spazzava il cortile da farti sgambetti.
C’era da ridere.
Zia Maria finì più volte a piedi in aria quel mattino, già di suo barcollava, le gambe vecchie di cent’anni non tenevano il passo nella quiete, figurarsi in mezzo alla tempesta.
Erano giorni di povertà quelli.
Giorni di tinozze e vasi, cocci e resti messi per la casa a raccoglier acqua dalle crepe sul tetto, giorni di freddo. Giorni di cartone a rattoppare vuoti e fessure, e ante scricchiolanti, strenuamente socchiuse per nasconderci al mondo, e squittii invadenti zittiti dal passo malfermo di gattini sperduti.
Erano giorni di povertà quelli.
E stille di miele a carezzarmi la gola infiammata che non dava respiro. Sentivo le mie parole restarsene mute, e soffiavo e soffiavo, ma non c’era ragione. Il vento copriva ogni sforzo. Poi, così come senza chieder permesso aveva spalancato ogni cosa se ne usciva via, e nonna e la zia, e la vecchia della casa di fronte, leste come formiche a rincorrersi per riportare la calma.
Ma il vento era entrato e m’ero confuso al suo fare.
Zia Maria sbraitava a parole fluttuanti, che passavano sulla mia piccola testa come sputi mozzati. E chiamava a raccolta i suoi santi che venissero dentro a placarmi nell’animo. Non sapeva, la zia, che anche i santi erano stati piegati e sbattuti. Loro, spalle al muro, sospesi al filo, più volte sospinti e poi lasciati cadere. Non c’erano vetri a proteggerne i volti.
La vecchia vicina, che aveva la barba più fitta di papà, scrutava i miei occhi, sibilava il mio nome, come fosse bestemmia.
Ma io m’ero mischiato al vento e non potevo restare.
Eppure nonna sapeva, aveva capito e sedeva a sbarrarmi la porta, mentre la pioggia scrosciava orfana del vento, battendo il tempo sui ciottoli.
«Si stancherà», diceva, «si stancherà.»
Ma il vento non ha mai avuto requie da quando s’è detto vento, ed io m’ero mischiato al suo fare.
Andavo su e giù lungo la scala piegata dal tempo, sospesa dagli anni, lasciata al sorriso del nonno. Contavo le gocce cadute dal cielo scivolare sulle travi di legno, scendere tristi e morire su tinozze ammuffite. Salivo su e giù per la scala a rincorrere l’eco delle mie urla, mute, ancora una volta senza possibilità di ritorno. Entravo e uscivo dalle stanze sperando di trovarci qualcuno, qualcosa di nuovo.
Ma nessuno veniva.
Il vento era andato, lasciandomi solo e senza voce.
Salivo, scendevo, saltellavo sul lettone di nonna, rimanendoci dentro, risucchiato dal tonfo sordo di un materasso troppo stanco per provare a combattere. E ad ogni salto potevo sentire un profumo, un ricordo, una voce. L’odore degli anni, strato su strato, si liberava nell’aria.
Un tempo c’erano stati amori, rantoli di piacere rubati alla fatica della calce. C’erano stati figli, nati e cresciuti uno dopo l’altro, pianto su pianto, dolore su dolore, sorriso su sorriso. Adesso dormiva il materasso, senza più rumori, né nomi da richiamare a tavola, né passi per le scale che avvisano di giochi e confidenze. Dormiva solitario cullando il respiro di nonna.
Per quanto m’impegnassi, nella foga che avevo rubato al vento, non c’era modo di scostarlo, ogni mio sforzo era vano. Potevo picchiarci la testa, scalciarlo, provare a spingerlo a destra e a manca con le mani paffute, ma nulla.
Immobile.
Se ne restava lì, muto, un po’ come me, esausto dall’immane prova del tempo, a fissare il comò.

Ho imparato negli anni che anche la povertà riesce a mantenere una regale dignità, a saperla indossare, ma non è roba da tutti, lo so. Nonna aveva un ché di regale nella sua calda povertà. E quel comò ne era il segno. S’era ammirata bella, seduta a pregare nei giorni di guerra, s’era trovata vecchia, seduta a pregare nei giorni.
Molti, troppi, trascorsi, finiti. Lontani.

Il vento di quel mattino mi aveva condotto al cospetto del vecchio comò.

Uno specchio mi restituiva alla vista per quello che il vento aveva fatto di me. Mobile. Senza riflesso, con occhi sguscianti e un sorriso deforme, proteso al prossimo gesto. Toccavo, e cercavo qua e là, rovistavo i pochi oggetti, i cassetti bloccati, fermi alle richieste di gracili braccia d’aprirsi. Rumoreggiavo cantando, così come nonna, così come mamma prima di me. Curioso di vederci chiaro in quel mondo riflesso che perdeva i dettagli, distratti come i panni di sotto dalle folate del mattino.

Nonna mi prese alle spalle. Col passo felpato e il respiro alla menta che seguivo segugio per uscirmene fuori dai guai. Sorrise e mi diede la mano, mi prese dal vento e mi portò con braccia tremanti sulle ginocchia.

«Questo comò ha una storia da raccontare», disse. Rimise gli oggetti che avevo toccato al posto di prima, come se nulla li avesse sfiorati, come se il vento non fosse mai entrato là dentro. Lisciò con la mano la superficie di marmo, quasi fosse una stoffa da rassettare, poi carezzò i miei capelli bagnati dalla febbre e dalle ripide salite.

«Quando il nonno lo portò in casa era malconcio.», disse con la voce rotta da quel nome.

Poi un lieve respiro e ancora parole.

«Aveva due gambe spezzate, la cassettiera divelta, le maniglie dei cassetti penzoloni, alcune deformi, altre mancanti del tutto. Era pieno di buchi in cui le tarme giocavano a nascondino. La base di marmo schiacciata dall’incuria e da passi poco gentili, frantumata. Tenuta insieme dallo sputo, sembrava volesse cedere in migliaia di pezzi al solo respiro. Nonno l’aveva trovato dentro un magazzino che dovevano ristrutturare con la ditta in cui lavorava all’epoca, molto prima della guerra, pochi mesi dopo esserci sposati. Era lì, mi disse, abbandonato in un angolo, sepolto da travi e attrezzi vari. Il proprietario gli fece capire che si poteva buttare, o prenderlo magari, se ne avesse avuto la forza e lo spirito, ché a lui non interessava nulla, l’aveva sempre detestato. Così il nonno lo portò a me come un piccolo dono, mi disse scherzando. Io sorrisi, perché non è che avessi ricevuto molti regali prima di allora, anzi, ma un rudere del genere, con lo specchio frantumato, soltanto qualche coccio incassato all’angolo che mi faceva capire, ecco lì prima di niente c’era uno specchio, che farmene?, pensai. Un mobile orribile, poi. Capivo bene l’animo del proprietario, eppure il nonno caparbio com’era lo caricò sul furgoncino della ditta e lo portò da solo fin quassù in camera. Aveva deciso. Il comò che vedi sta qui, al suo posto, da cinquant’anni. Ma non è questa la storia che voglio raccontarti», disse infine ancora divertita, scoprendomi annoiato. «Dopo che riuscì a fatica a portarlo fin qui, nonno s’industriò affinché il suo regalo potesse essere il migliore dei regali. Chiamò il mastro falegname, che in quegli anni teneva bottega in fondo alla stradina e gli chiese di sistemarlo, anzi, gli intimò col suo solito fare di portarlo all’antico splendore, senza badare a spese. Sai, nonno era così. Roboante nelle sua azioni quanto nelle parole che diceva. E cantava sonoramente, molto più di me. Riempiva il vuoto di questa casa con la sua voce possente», disse cercandolo in quello specchio sbiadito. Poi si fermò, le sentivo il respiro salire lento fino alle labbra, ma non produceva alcun suono. Mi guardò e sorrise. Ancora, come aveva sempre fatto da quando ne ho avuto memoria. E continuò. «In pochi giorni il mio regalo era pronto. Lucido e bello. Con la superficie in marmo levigata, lo specchio chiaro in cui ci potevo già scorgere le prime rughe da lavoro in casa, la vernice splendente sul legno e i pomelli dei cassetti a posto e funzionanti, di rame lucente. Era costato più di quanto avesse previsto, ma nonno non è stato mai in grado di prevedere, amava fare, agire, e in fondo è per questo che l’ho sposato prima, e amato sempre. Il bello però caro mio deve ancora venire, eh sì», disse quasi sobbalzando sulle ginocchia e dandomi una sonora pacca sulle spalle. «Sì, perché pochi giorni dopo che il regalo mi fu consegnato pronto per l’utilizzo, iniziai a riporre con cura le pochissime cose che costituivano il mio corredo», e a queste parole sorrise di gusto, sonoramente «come se una ragazza come me, sposatasi dopo la classica fuitina potesse dire d’avere un corredo, beh, comunque io qualche lenzuolo ben ricamato l’avevo, come no. Regalo di mia nonna, che pur venendo dal secolo passato mai s’era opposta al nostro legame. Ad ogni modo possedevo alcune cose. Le maglie di lana del nonno, altre magliette varie e un po’ di biancheria. I mutandoni come tu li chiami. Ecco, ricordo ancora quel pomeriggio strano come fosse ieri. Ad un certo punto provando a chiudere il secondo cassetto, come dimenticarlo», disse quasi tra sé, «trovai molte difficoltà, il binario non scorreva liscio così com’era accaduto poco prima, quando l’avevo aperto per riporre la biancheria. Nonostante i miei sforzi non sono riuscita a chiuderlo del tutto, mi son detta aspetterò Franco al ritorno da lavoro. Nonno rincasò alla solita ora, dopo la quotidiana capatina al circolo. Erano le sette in punto. Salì le scale con passo lento, affaticato dal sole e dal doppio bicchiere di rosso, si tolse la roba da lavoro e si mise in libertà, indossando la classica canotta bianca che adoperava anche d’inverno e i pantaloni larghi che amava tanto, e che gli davano un’aria del pagliaccio che si divertiva sempre ad interpretare per me. Gli dissi del cassetto, e brontolando, ma col sorriso sulle labbra e la sigaretta pronta per essere accesa, provò ad armeggiare. – Ecco! Sempre a me i lavori complicati, quelli per cui non si vede soluzione, come l’inghippo di questo cassetto. Non c’è nulla eppure non ne vuole sapere di chiudersi. Armeggio da troppo tempo con le cose, per il resto ho da sempre armeggiato con la vita ma non sono riuscito a cavarci granché – , sbraitava, sapessi che ridere, era comico, in tutto quello che faceva, teatrale, eppure del teatro non ne sapevamo nulla, e la Tv era così lontana dalla nostra cucina. Sì, nonno aveva letto qualcosa in gioventù, ma s’era subito stancato. Anche qui in maniera da attore mi ripeteva che – era meglio vivere la propria vita, sebbene sgangherata, piuttosto che quella d’altri, seppur migliore. Ritornando alla storia, ecco, sì, iniziò a sudare, nemmeno che se fossimo stati in estate. E sudava, grondava, come si dice. S’alzò, perché sì, tutto questo armeggiare l’aveva fatto da terra, sdraiato. Si passò il polso sulla fronte e come in una sfida senza fine si ributtò contro quel cassetto con più veemenza. Stavolta restandosene in piedi, con le gambe arcuate a spingere contro la parete. Vedessi che scena, la specchiera vacillava, dandomi l’impressione di frantumarsi all’improvviso. Chiesi a nonno di lasciar perdere, che alla fine se per qualche centimetro non si chiudeva quel cassetto tutto andava bene, il comò mi piaceva, riempiva la stanza, dava colore e scaldava arricchendo la nostra scarna mobilia. Sì, in fondo era stato un gran bel regalo, uno di quelli che non si dimenticano facilmente. Eppure, nonno, cocciuto come una capra non s’arrese mica. Dopo altri tentativi andati male, scardinò completamente il cassetto. Lo tirò fuori con impeto. E con fare vittorioso lo adagiò sul letto. Riprese fiato alcuni istanti…» e qui sorrise, di gusto. «Be’, in effetti nonno provò a rincorrermi come un ragazzino, ed io come una perfetta compagna di giochi me la svignai su per le scale, sentendolo imprecare divertito. Avevo il fiatone per quella corsetta, quando lo sentii quasi gridare il mio nome. Così discesi ancor più velocemente verso camera da letto. E lo ritrovai come un bimbo soddisfatto, seduto a terra con le gambe incrociate. E mi fissava sorridendo. Esausto, più per i bicchieri di vino sono tutt’ora convinta, che per quella stramba fatica. Mi sorrideva tendendo una mano verso di me. A primo impatto non capivo, lo osservavo così buffo nel suo essere fino a quando con un gesto da caricatura attirò la mia attenzione verso quello che tratteneva tra le dita. Era una busta, tutta rabberciata, che conteneva qualcosa. Lo spessore della carta piegata impediva al cassetto di scorrere correttamente fino alla chiusura. Problema risolto, dicevano i suoi occhi fiammeggianti.» Mi carezzò ancora una volta i capelli, mentre la mia testa trovava ristoro tra le sue braccia calde. Poi riprese. «Nonno mi passò la busta, io la stirai provando con qualche difficoltà ad estrarne il contenuto. Alla fine ci riuscii. C’era dentro una foto, mal ridotta. Di una ragazza bellissima. La mostrai subito a nonno, perché in fondo credevo d’averla riconosciuta, e chiedevo a lui conferma. Nonno la fissò e rimase ad osservarla. I suoi occhi s’erano spenti, immalinconiti, pertanto capii d’averla ben riconosciuta.»

«E chi era la ragazza nella foto?», chiesi impaziente.

«Era la più bella ragazza del paese. Tutti ne erano convinti, eppure aveva avuto una storia tristissima. Qualche anno prima che io e nonno ci sposassimo l’avevano ritrovata senza vita dentro al pozzo della campagna di alcuni parenti. Devi sapere che per giorni e giorni l’intera popolazione aveva battuto le campagne circostanti il borgo alla ricerca della giovane scomparsa. Il potestà era in testa al corteo che notte per notte, con fiaccole alla mano, rovistava metro su metro. Alla fine grazie all’intuizione del parroco di allora si riuscì a scovarla. Se non ricordo male trascorsero più di due settimane prima del macabro ritrovamento. Tutta un’intera comunità pianse. I carabinieri sollecitati dai parenti condussero a lungo indagini seguendo ogni possibile pista. Nessuno poteva darsi pace. Nessuno accettava la morte di quella ragazza. Così bella e pacifica. Finita sfracellata, cinque metri sottoterra, con le ossa spezzate e il viso tumefatto. Irriconoscibile se non fosse stato per le vesti che indossava e per la catenina che le cingeva il collo, regalo di famiglia. Quello che inquietò non poco la comunità fu la completa mancanza di motivazioni per quel truce accadimento. Alcune voci girarono per mesi in paese, sostenendo che il parroco, sotto confessione, fosse venuto a conoscenza di qualche particolare. Perché pochi, in verità, credettero all’illuminazione dello spirito santo che condusse i ricercatori nell’esatto luogo in cui il corpo della ragazza fu ritrovato. Devi sapere che quella campagna era stata abbandonata al suo destino. Racchiusi da una male assortita recinzione c’erano un pozzo senz’acqua e una catapecchia lasciata all’incuria del tempo, da anni ormai i proprietari non mettevano più piede in quell’arido e misero appezzamento di terra. Molti provarono a far parlare il prete, che si nascoste sempre dietro al mesto sorriso che portava per le strade del borgo. Questi ricordi salirono nella nostra mente in maniera diversa. Io e nonno rimanemmo a guardarci stupefatti. In qualche modo quel comò era appartenuto in passato alla povera ragazza. Lo pensammo senza dire parola. Con fare mesto scendemmo in cucina. La conversazione non scivolò allegra com’era solito tra noi. Prima che preparassi la cena nonno si divertiva a giocarmi scherzi, prendermi in giro per poi coccolarmi come lui sapeva fare. Quella sera restammo muti, intristiti dalla bellezza della foto ritrovata così per caso. Senza neppure renderci conto trascorremmo la cena passandocela di mano in mano. Scrutandola come se potessimo capirci qualcosa di più. Parlammo anche della faccenda. Considerammo che dal ritrovamento della povera ragazza erano trascorsi almeno cinque anni. Provammo a ricercare nella memoria, e sì, credevamo d’aver ragione. Nonno mi aiutò a rassettare le stoviglie, sistemammo insieme e risalimmo per andare a dormire. E anche qui senza accorgerci portammo su con noi la foto. Il pensiero di quella povera ragazza, e di ciò che le era accaduto attraversò i nostri sogni fino all’alba. Di buon mattino, come solito, mi alzai, discesi giù in cucina pronta a preparare il caffè che avrei portato al nonno. C’era una sorta di rito in questo. Il vassoio con le due tazzine, il cucchiaino per mescolare lo zucchero per me, e un sorso d’acqua per il nonno. Quel mattino lo ritrovai già con gli occhi spalancati, seduto a mezzo letto, col volto scuro e quella foto tra le dita. Pensai per un attimo che avrei fatto meglio a starmene zitta, a lasciare che il cassetto restasse non del tutto chiuso. Avrei evitato che quel triste ricordo iniziasse a girare per l’aria di casa rendendoci grigi senza sapere fino in fondo come rimediare a quella malinconia. Sorseggiamo il caffè senza dire parola, poi nonno s’alzò, assente, mentre negli occhi gli leggevo una rabbia sorda, che poche volte avrei rivisto. Entrò nel bagno senza fischiettare arie d’opera come gli accadeva di solito. Io rigovernai la camera e ritornai in cucina. Dopo alcuni istanti sento il tonfo di una sedia e nonno che mi chiama a gran voce – Agata, Agata, sali, presto! Ricordo che lasciai scivolare per terra uno dei pochi piatti del servizio, che si frantumò all’istante. Non ebbi modo di rendermene conto, ché ero già di corsa per le scale con il cuore a mille per la paura. Ritrovai nonno seduto sul lato destro del letto con gli occhi luminosi. Teneva in mano la busta dalla quale, la sera prima, avevo tirato fuori la foto che ci aveva perseguitato nella notte. Mi invitò a sedergli sulle ginocchia e poi disse – Guarda qui, qui in fondo, all’angolo, è scritto a matita, quasi scolorito, eppure se aguzzi la vista si legge bene. Io provai a decifrare quella scrittura minuta e particolarmente disordinata. A fatica riuscii a individuare le parole. Un nome e una data. Guardai tremante nonno, che annuì e mi abbracciò con forza come a volermi proteggere dal mondo.»

«E perché nonna, perché lo fece e qual’era il nome scritto sul fondo della busta?»

Riprese fiato per la lunga tirata. Respirò lentamente, e mi carezzò ancora, poi continuò.

«Il nome era quello di un vecchio amico del nonno, un compagno di giochi di quando provavano ad esser bambini. Ma era durato poco quel gioco. Le disgrazie che li colpirono, allora, avevano ben presto rovinato ogni cosa costringendoli ad indossare le scomode maschere degli adulti. Entrambi persero i padri, uccisi alla stessa maniera, senza alcuna pietà. Entrambi dovettero far fronte alle difficoltà delle famiglie, entrambi rimasti uomini di quelle case vigliaccamente lasciate sguarnite. Nonno Franco e Agostino, l’amico di sempre, iniziarono subito a darsi da fare, lavorando a giornate ché neppure avevano compiuto la tua età.»

«Scusa nonna, ma la storia della foto, la ragazza dico, cosa aveva a che fare col nonno?», chiesi.

«Dunque», disse rassettandosi la veste, «anni prima girava voce in paese che la giovane Adelina, la ragazza della foto per intenderci, aveva perduto la testa per Agostino, che nel frattempo aveva messo su famiglia. I mormorii dei vicoletti, cui mai ci si abitua, crescevano sempre più, invadenti, fino a diventare urla che nella notte passavano di casa in casa. Fu tirata in mezzo molta gente, anche gente poco raccomandabile. Alcuni parenti di Adelina fermarono per la strada Agostino minacciandolo pesantemente. Doveva smettere di importunare la ragazza. Alla fine dopo qualche settimana di trambusto il venticello della calunnia si acquietò ritornando in silenzio verso le colline. Così come lo stesso Agostino d’improvviso cambiò lavoro e paese, stabilendosi definitivamente sulla costa. Tutto ritornò alla normalità, fino a quando, come ti ho già detto, la ragazza svanì nel nulla prima d’essere ritrovata dopo alcune settimane.»

«E dopo, nonna, dopo cosa accadde?»

«Accadde che nonno Franco non andò a lavoro quel giorno.»

«Perché?»

«Perché la data riportata nella busta indicava proprio lo stesso giorno della scomparsa di Adelina. La ricordavamo bene: era stata la domenica di Pasqua di quell’anno, ma ci era cara sopratutto perché segnava il nostro anniversario di matrimonio.»

«Davvero?»

«Sì. Nonno, allora, pensò bene di prendere la corriera per Cefalù, con la ferma volontà di chiedere spiegazioni all’amico di un tempo. Io provai in tutti i modi a dissuaderlo. Dissi che riportare in vita fantasmi non avrebbe fatto bene a nessuno, e poi, poi non c’era alcuna certezza nella supposizione che lacerava l’animo del nonno, ma non immagini come reagì. Sembrava un cavallo imbizzarrito che, presa quella strada, non avrebbe per niente al mondo cambiato direzione. E così fu.»

«E poi, dimmi nonna, poi? Incontrò Agostino? Scoprì cos’era accaduto?»

Nonna rimase per alcuni momenti in silenzio.

L’orologio a pendolo ticchettava fastidiosamente, ed io avrei voluto colpire quel galletto molesto con la mia fionda, ma la voglia di sapere come andava a finire la vicenda mi tratteneva sulle sue ginocchia in attesa.

Gli occhi dell’anziana signora si chiusero.

Le palpebre serrate nascondevano il travaglio di quell’anima che mai avrebbe mostrato chiaramente il suo dolore. Nonna cantava, sorrideva, e cantando e sorridendo raccontava storie. Non aveva tempo per la tristezza, e se qualche volta la malinconia la coglieva alla sprovvista, be’, era lesta a scalciarla via con un bacio, o un’infornata di biscotti al burro. Eppure in quell’istante non fu pronta di riflessi, non mi baciò, né tirò fuori col guanto a forma di babbo natale l’incandescente teglia stracolma di delizie dolciarie.

Nulla di tutto ciò.

Ebbe semplicemente un fremito.

S’alzò di scatto, gettandomi letteralmente a terra.

Mi rimisi in piedi, frustrato, mentre lei scivolava lungo le scale verso la cucina.

«Nonna, nonna, dove vai? La storia, com’è finita?», dissi con voce implorante.

«Troppo tardi, devo preparare, ho perso troppo tempo, torna a giocare in cortile.», mi rispose senza alcuna inflessione, quasi fosse un automa.

«Ma nonna…?»

Non rispose allora ne mai più ritornò sulla vicenda.

In quell’istante ho avvertito un senso di disagio, quasi un dolore al petto.

Qualcosa che scaturiva dalla mancanza di una fine, dall’incompiutezza delle cose, nelle cose. Col tempo ho rivissuto quella sensazione come campanello d’allarme per un percorso che in qualche modo chiedeva d’esser concluso. E ho provato a farlo. In quell’occasione ho anche imparato che non sei tu a cercare le storie, sono loro che ti scovano. Al momento giusto. E quel momento giunse qualche settimana dopo. Quando mi imbattei avventurosamente nel libro
di Manrico. Lo zio che non avevo avuto modo di conoscere, quello zio che aveva pensato bene di darci un taglio con le cose. E concluderle. Lì.

Restandosene appeso al soffitto.

Fluttuante come le sue parole, anticipatrici di ciò che sarebbe stato.

Fu in quel libro che ritrovai la conclusione della vicenda di Adelina. In un modo di raccontare, così diverso da quello di nonna, così difficile da decifrare per me allora, provai ad immaginare.

dal Libro Verde , racconto 21: In morte di Adelina Bongiovanni

Il sole morente scolpiva misere ombre sulla strada. Passi dimessi in processione verso il nulla. Lo scintillio delle fiaccole accendeva gli occhi dei cacciatori. In fila. Silenziosi nei loro pensieri. Alla ricerca dell’ignoto. Ogni parola detta nelle giornate precedenti aveva spento le voci. Urla, cui l’eco posso sentire ancora per la valle, a distanza di anni. Chiamano un nome, invano. Lo sento, ancora. Passare di bocca in bocca. Adelina, Adelina, Adelina. Senza risposta. Un intero villaggio vestito per la caccia, in cerca. In marcia, al ritmo mesto di un requiem. Questa la musica di quel 18 aprile. Il buon dio dall’alto avrà di certo seguito il dipanarsi di un cammino flebile, ondeggiante come le fiamme di fiaccole tristi ad indicare la via. In testa il parroco benedicente. Presagio di un dolore che da lì a poco avrebbe colpito anche il più cinico dei briganti. E qualche brigante davvero presente, intruso, nei ranghi dei cacciatori a rimestare. Nel racconto di papà ho visto spesso i loro volti. I volti delle donne e degli uomini che in quella sera tastavano il terreno sperando di trovarvi qualcosa di più di una radice sterile. Ho visto le labbra strette dei padri, per non far venir via bestemmie, che avrebbero cinto al petto le figlie con più forza al ritorno, e le rughe delle donne, presto divenute madri, infittirsi a causa del dolore di un’angoscia più grande.

Adelina, diceva papà.

E raccontava.

Con la voce piena di pathos e vino.

Quella notte non doveva finire, eppure si spense nel gorgo di un vecchio pozzo abbandonato. Il ventre squarciato della giovane bellezza che il circondario invidiava. Dimenticata dal giorno e nascosta agli occhi del cielo. Quel viso e le labbra dolci seccate dal gelo e solcate nel profondo dai tracciati di una morte troppo presto venuta a bussare. Piansero in molti e tutti chiesero al cielo perché. Senza avere risposta.

Muta Adelina, muto il cielo.

E mio padre fermo nel dire.

Nel dirmi perché.

Ho impiegato del tempo e lavorato a lungo. Come un pugile che mira al fianco, inesorabile e preciso per togliere fiato e forze all’avversario, io ho lavorato mio padre.

Senza malizia, ma per conoscenza.

Non riuscivo a dormire la notte.

Volevo sapere.

Poi venne fuori la storia del comò, e quella fotografia che scovai per caso tra le cose di mamma. Che da par suo provò a raccontarmi ma alla fine si tradì nella voce piegata in un pianto leggero.

Io e mio padre.

Le dita tremanti nel cercare la carta. E gli occhi rossi come il riflesso del bicchiere.

Io, mio padre e una storia. Così lo ricordo. Così mi ricordo.

E forse per questo non sono, ne mai lo sarò.

Le sue di parole, grondanti di vita, le mie di memorie.

Per questo ricordo, e forse mi trovo.

Io e mio padre, seduti di fronte a sfidarci nel gioco.

Beviamo un goccetto, e un altro ancora, la mamma già dorme, è l’ora del dire.

Di quando scappò quasi di casa in sella alla vespa rombante. Di quando raggiunse l’amico di un tempo, il vecchio Agostino, il nome di un uomo che mai ho conosciuto ma ho visto e rivisto migliaia di volte per tutte le volte che storie e racconti me l’hanno portato davanti. Di quando arrivò ai piedi della rocca, sudato e tremante per la paura di averci capito qualcosa. Di quando chiese in preda a morsi di febbre, chiese ad ogni passante trovato per strada dove poteva trovarsi Agostino, come se tutti lo conoscessero, come se a Cefalù di Agostino ci fosse soltanto quell’uomo.

Di quando lo vide e gli tese la mano.

Di quanto Agostino pianse come un bimbo ferito. Costretto tanti anni addietro a lasciare ogni cosa. Mentre Adelina non rinunciava.

Parlarono a lungo, urlarono e piansero insieme. E per l’ultima volta si strinsero prima di andare. Agostino lontano, a imbracciare le reti, al largo, verso il mare. Adelina a casa, così disse mentendo. La ragazzina privata di tutto non chiese più nulla alla vita né al cielo, così si lasciò scivolare nel gorgo del pozzo, spegnendo la luce.

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